Stefano Piali, la mano
visionaria e le metamorfosi della memoria
La
ricerca di Stefano Piali è una sfida alle apparenze. Lo si vede
chiaramente dopo aver trascorso qualche ora nel suo studio di
Marino, ai Castelli Romani, in ambienti confortevoli per qualsiasi
altro artista e invece troppo stretti per la sua esuberanza
creativa. All’inizio, ad un primo sguardo, si resta sorpresi ed
ammaliati dalla maestria tecnica che promana da ogni opera,
pittorica o scultorea che sia, una sapienza che non è mai pura
esibizione muscolare ma l’esito lungamente inseguito di un faticoso
percorso di affinamento spirituale. Qui e in pochi altri atelier
cade sorprendentemente nel vuoto il pur lungimirante e veritiero
grido d’allarme sulla perdita di “maestria e bellezza” nell’arte
contemporanea lanciato dal grande Ernst H.Gombrich. In un secondo
momento, dopo essere stato rapito dal vertiginoso magistero
esecutivo di Piali (di cui, ad esempio, dà prova perentoria il
magnifico marmo “Omaggio al sommo poeta”), il visitatore è
catapultato in uno spettacolare scenario mitico, epico, senza tempo,
fatto di battaglie, di scontri, di trasfigurazioni, di voli finiti
male, di incendi, resurrezioni, naufragi, di attimi fatali,
drammatici, tragici, erotici. Lo sguardo si perde fra corpi statuari
che si inabissano in enigmatici coni d’ombra e laceranti
perforazioni o lacerazioni che mettono in crisi il concetto stesso
di bellezza assoluta. Ma, ad un’attenta considerazione, passano in
secondo piano le strategie narrative, i pur stupefacenti effetti
teatrali e tagli compositivi, le audacissime anamorfosi anatomiche e
si scorge il respiro perennemente attivo della memoria e delle “onde
mnemiche” tanto care a Warburg, dal passato al presente e viceversa.
E’,questa, una scelta controcorrente in un mondo, come quello
odierno, drammaticamente pervaso dall’oblio, dalla dimenticanza,
dalla cancellazione dei valori e della qualità. In molti quadri e
sculture di Piali gli echi della pittura gestuale, dei tagli di
Fontana e dei cretti di Burri (si veda l’ambizioso bassorilievo de
“Il folle volo”, ad esempio) e forse perfino quelli della body art,
dialogano imprevedibilmente, in nuove forme marchiate dalle stimmate
della necessità interiore, con la memoria dei tormentati “Prigioni”
di Michelangelo, delle contorsioni manieriste, degli infiniti spazi
barocchi, del drammatico realismo di Caravaggio, dell’energico
dinamismo berniniano, della titanica inquietudine plastica di Rodin,
dell’aspirazione al sublime di Blake. Prende così corpo
un’alternanza dialettica di continuità e di rottura con il passato
più lontano o recente messa perpetuamente in atto dall’artista.
Piali ama allo stesso modo pittura e scultura concependole come arti
complementari che si rafforzano ed ispirano reciprocamente. E sa
ascoltare le “onde mnemiche” ma non se ne fa travolgere, anzi le
trasforma in correlativo figurale ed espressione formalizzata
dell’energia psichica in divenire. Ecco allora affiorare la linfa
interna della sua ricerca, l’idea di metamorfosi totalizzante,
interiore ma anche formale e perfino storico-artistica in quella
liberissima coesistenza delle differenze che anima il suo percorso.
Così le figure di Piali sembrano possedute internamente
dall’inesausta agitazione della fiamma e del vento come forze
elementari che rappresentano la negazione dell’immobilità
cristallizzata. E non è certo casuale il fatto che Piali sia stato
allievo all’Accademia di Belle Arti di Roma di Pericle Fazzini, il
sublime scultore “dell’impeto del vento”, come lo ha definito
l’indimenticabile Ungaretti. Senza dubbio, infatti, il nostro
artista potrebbe ben sottoscrivere quanto affermato proprio da
Fazzini: “La vera scultura deve arrivare a creare una forma
assoluta, mistica, lontana dalla esistenza “fisica” del modello, una
forma che non ha bisogno di “respirare” l’aria”. Per diversi anni,
dopo gli studi accademici, Piali ha provato quel che hanno provato
tutti gli artisti dotati di profonda sensibilità storica, come ha
inimitabilmente scritto Aby Warburg nell’Introduzione al suo
incompiuto “Atlante della memoria”: “L’obbligo di confrontarsi col
mondo formale di valori espressivi predeterminati - vengano questi
dal passato o dal presente - segna la crisi decisiva per ogni
artista che voglia affermare la propria individualità”. Così, Piali
ha saggiato nel corso degli anni un personale inventario linguistico
che ha attraversato un iperrealismo analitico e quasi raggelato ma
sorprendente per diverse intuizioni immaginative (ne offre un
pregevole esempio “Anatomia”, del 1983), quindi una fase più
liberamente gestuale, al limite dell’astrazione che lo ha poi
portato a far esplodere le forme (con opere assai felici come “Il
folle volo”, “Metamorfosi cosmica” e “Muro di Berlino”, baluginanti
e visionarie), fino all’intensa fase attuale di ricomposizione degli
opposti pur sempre in tensione. Del resto, per Piali la realtà
contemporanea e l’interiorità più profonda hanno raggiunto una tale
metamorfica complessità da rendere insufficiente un solo codice
interpretativo per dare forma a tutto quel che succede nel mondo e
nell’uomo di oggi. La stessa tensione fra gli opposti che dà linfa
alla ricerca dell’artista si realizza prima di tutto nell’inquieta
dialettica della sua tecnica pittorica, anzi, direi, nei modi sempre
diversi e variabili di stendere il colore, dalla salda costruzione
plastica e luministica alle rarefazioni più leggere e ariose e ai
più vorticosi impeti gestuali. A tal proposito Piali potrebbe ben
condividere, mutatis mutandis, quanto ha scritto da par suo Massimo
Bontempelli nel lontano 1935, con profetica lucidità: “Se butto via
il corpo non trovo più nemmeno l’anima. L’arte è tutta fatta di
queste strette unioni di contrari. L’arte
è il contingente che ha valore di assoluto, il concreto che ha
valore di astratto, la realtà che ha valore di fantasia. Nel
combattimento tra umanità e astrazione, tra materia e spirito, si
tocca un punto in cui d’improvviso ci si avvede che sono la stessa
cosa. Quel punto è l’arte”. E così l’idea della metamorfosi e del
mutamento interiore concepiti come itinerari di conoscenza percorre
tutti i periodi di Piali, li feconda assumendo aspetti diversi ma
sempre vitalmente creativi perché in continua tensione ed anelito di
ricerca. Il nostro pittore e scultore aspira ancora ad un ideale di
grande narrazione, ormai esclusa dal sistema dell’arte
contemporanea, ma questo obiettivo si configura come una sfida verso
l’ignoto e al di là delle apparenze che si rivela aperta a tutte le
possibilità e profondamente pluralista. E così la sua fede
incrollabile nella sapienza tecnica non è mai puro e superficiale
sfoggio virtuosistico ma profonda consapevolezza del fatto che la
mano ed il cervello si arricchiscono reciprocamente e in modi
inimitabili soprattutto attraverso il dialogo continuo innescato
dalla pratica artistica “tradizionale”. Lo ha chiarito bene il
Pictor Classicus per eccellenza del XX secolo, Giorgio de Chirico:
“La mano dell’uomo possiede una agilità che non è stata concessa
dalla Natura agli altri esseri viventi, quindi il cervello dell’uomo
concepisce un’idea che la mano traduce ed esprime creando un oggetto
concreto e tangibile. L’oggetto realizzato stimola poi il cervello
al pensiero e al desiderio della perfezione”. Ecco, dalla pittura di
Piali promana pure un’ansia di perfezione che inevitabilmente va a
scontrarsi col superficiale e tirannico pressappochismo del mondo di
oggi, votato al puro e semplice intrattenimento spettacolare. Nel
quotidiano percorso creativo di Piali ogni momento del processo
esecutivo e tecnico stimola la creatività perché per il nostro
artista l’atto del fare significa anche immaginare. In qualche modo
egli comincia a “vedere” solo quando prende contatto con la materia
e lavora con le mani. In tal senso è inevitabile pensare anche ad un
fondamentale testo di Henri Focillon del 1943, “Elogio della mano”,
in cui il geniale storico dell’arte francese scrive: “La mano tocca
l’universo, lo sente, lo domina, lo trasforma. A lei si debbono
straordinarie avventure della materia. Non le basta afferrare ciò
che è: deve operare a ciò che non è, deve aggiungere un nuovo regno
ai regni della natura”. Non a caso Piali sente fortemente la
vocazione a dare immagine a realtà parallele, a mondi interiori
indipendenti dal visibile. Così il nostro artista ha scelto
coraggiosamente di mettere costantemente alla prova una sicura
capacità demiurgica di identificazione con le materie usate e con
una naturale vocazione alla meditazione e alla contemplazione. E non
ha paura di sentirsi talvolta definire “inattuale” perché oggi, per
sfuggire alle spire soffocanti del tentacolare sistema dell’arte con
le sue mode effimere e con l’ossessione del nuovo ad ogni costo, è
necessario proprio un sincero e costante “elogio dell’inattualità”.
Le sue sono opere veramente capaci di tramutarsi in “significato
incarnato”, per usare una felice definizione di Arthur C. Danto.
Estremamente contemporanea nello spirito è poi la virtualità
spaziale che innerva con tutta evidenza molte opere pittoriche di
Piali tramite una multidimensionalità policentrica che rende
metamorfico e mutante lo spazio stesso, concepito non più come un
semplice contenitore – secondo gli stilemi classici – ma come un
campo di psicomachie interiori, animato da una perenne agitazione,
da un furor quasi dionisiaco e da un inquietante stato d’allarme: lo
si vede bene in opere come “Piani nello spazio” (2005-2006), “Dal
ciclo delle Muse” (2008) o nel dittico “Materia e spirito” (2008) e
nel trittico “Porta di luce” (2007), solo per citarne alcune.
Immaginando la coesistenza di molteplici realtà parallele che si
intrecciano, Piali sembra intuitivamente mettersi sulla stessa
lunghezza d’onda delle più recenti ipotesi scientifiche secondo cui
l’universo a noi noto non sarebbe l’unico, poiché esisterebbe il
“Multiverso”, un insieme di universi coesistenti e paralleli ma non
semplicemente affiancati l’uno all’altro: essi infatti si
compenetrerebbero senza interagire in alcun modo tra loro. In ogni
caso, ad un’attenta lettura, una metamorfica dislocazione spaziale
dalle infinite potenzialità anima pure le sue sculture più riuscite:
quattro marmi folgoranti come il saettante “Lampo erotico” (1996),
l’inquietante “Tensione” (1996), quasi sul punto di esplodere nello
spazio con la sua impressionante concentrazione interiore,
“Liberazione” (2001), magnifico nudo femminile che si trasforma in
spirale ascendente, carica d’energia e il tempestoso “Un abbraccio
per la pace” (esposto in permanenza nell’Aula consiliare del Comune
di Ciampino); bronzi come “Sovrano” (1994), ribollente per una sorta
di implacabile fiamma interiore, la drammatica “Energia vitale”
(2009), “Grande Re” e “Regina” (2006-2007), animati dalla
concretizzazione plastica dei loro diversi stati d’animo; terrecotte
come “La fuga” (2006-2007), con le sue mirabolanti espansioni
spaziali o “Conflitto” (2008), in cui la forma stessa si fa tormento
insopprimibile. Nel continuo “gioco” di rottura e di continuità con
il passato e con il presente, messo in atto da Piali e a cui si è
accennato, la metamorfica dislocazione spaziale delle forme non
richiama solo le più aggiornate teorie scientifiche ma nell’elemento
temporale della percezione sembra idealmente tener conto di una
delle definizioni più illuminanti che riguardano la natura e
l’essenza della ricerca plastica: quella data nel “Laocoonte” (1766)
da Gotthold Ephraim Lessing, secondo cui la scultura è un’arte
legata al dispiegamento dei corpi nello spazio. Pur sottolineando
spesso che questa caratteristica spaziale è tipica delle arti visive
e comporta una loro sostanziale staticità, Lessing precisa anche, a
proposito della scultura, che “Tutti i corpi non esistono solo nello
spazio, ma anche nel tempo. Essi perdurano, e possono apparire in
ogni momento della loro durata con combinazioni differenti. Ognuna
di queste apparizioni e combinazioni momentanee è il frutto di una
precedente, e può essere la causa di una successiva, e perciò, per
così dire, il centro di un’azione”. Ecco, Piali cerca proprio di
attuare una strategia di dislocazione dinamica (in senso temporale e
percettivo) delle sue forme plastiche nello spazio, articolandole
con inquieta tensione. E rafforza il loro carattere metamorfico con
una strategia spiazzante, simile per certi versi a quella adottata
in pittura e che passa rapidamente dalla resa virtuosistica del più
minuzioso dettaglio anatomico all’affioramento materico appena
sbozzato e soprattutto ad una potente strutturazione astratta,
particolarmente evidente nel retro delle sculture, fatta di tagli
perentori oltre che di potenti triangolazioni compositive che le
innervano di concentrato dinamismo potenziale: se ne hanno esempi
mirabili nei già citati marmi “Lampo erotico”, “Tensione”,
“Liberazione” e nei proteiformi “Narciso” ed “Apparizione”, opera
che sembra planata fra noi direttamente da un sogno. Così uno dei
punti di forza della ricerca di Piali sta nell’assoluta
identificazione da lui raggiunta fra processo formale e intuizione
immaginativa, come dimostra il motivo dominante della metamorfosi
che è al tempo stesso fisica, interiore, stilistica e tecnica. Concedendosi
giustamente la più assoluta libertà d’azione creativa, Piali non
cade mai nell’arbitrio della trovata fine a se stessa tipica di
tanta pseudo-arte contemporanea. Crede infatti nella coscienza
storica della forma e nelle infinite possibilità delle sue
declinazioni tecniche ed immaginative, capaci di assicurare
un’indipendenza assai maggiore di quella raggiunta dagli artisti che
magari pensano di colmare la mancanza di un propria visione del
mondo con gli effetti speciali degli strumenti iper-tecnologici.
Così, nel suo sforzo titanico di dare concreta immagine plastica e
pittorica alla drammatica complessità vitale del mondo, Piali
potrebbe far sue queste riflessioni di un grandissimo artista come
Max Beckmann: “Quanto più diventa forte ed intensa la mia volontà di
fermare le indicibili cose della vita, quanto più pesante e profondo
brucia in me lo sgomento per la nostra esistenza, tanto più
riservata si fa la mia bocca, tanto più fredda si fa la mia volontà
di afferrare questo mostro di vitalità orrendamente guizzante e di
chiuderlo, abbatterlo, strangolarlo in linee e superfici nette e
cristalline”. E’ questo, fatte le debite proporzioni, l’obiettivo
inseguito in modi personali dallo stesso Piali, il cui itinerario
creativo dagli inizi ad oggi rivela una impressionante coerenza nel
perseguire come anelito costante una sorta di percorso iniziatico
verso la liberazione interiore, continuamente minacciata da dissidi,
conflitti, violenze, fallimenti (i tanti voli franati che popolano i
suoi dipinti), speranze deluse. I suoi corpi nudi e spesso dolenti
sembrano metaforicamente portare su di sé il senso di colpa della
cacciata dal Paradiso terrestre o forse sono i sopravvissuti di
un’immane tragedia che pur non ne ha deturpato la bellezza. Non di
rado dalle opere del Nostro promana quasi l’ansioso timore di
un’apocalisse imminente anche in relazione al crollo e allo
sconvolgimento delle forme e dei valori umanistici a cui stiamo
assistendo per lo più da osservatori passivi in un’epoca, come
quella attuale, che sembra identificabile in una sola parola: crisi.
“Crisi delle utopie, crisi dei progetti, crisi dei modelli - ha
scritto Yves Michaud - perfino crisi della storia divenuta finzione.
Dal punto di vista collettivo, il capitalismo e la globalizzazione
sono ormai l’ambiente, senza esterno, in cui ci tocca vivere.[…] Il
tempo si è per così dire appiattito: non comporta più la dimensione
di un fine ultimo che faceva luccicare il futuro. […] Può darsi che
il futuro riacquisti senso, non con un colpo di bacchetta magica del
pensiero ma rivelandosi davvero fallibile: sotto forma non di vuoto
ma di catastrofe, sotto forma di Apocalisse. L’avvenire
riacquisterebbe un senso…venendo semplicemente a mancare”.
Nonostante tutto, però, l’energia interiore, gli sguardi intensi e
profondamente concentrati degli uomini e delle donne di Piali
rivelano un desiderio di riscatto positivo ed un’ansia di
ricostruzione etica che tengono lontano l’incubo apocalittico. E
così, pur nell’ipotesi di un naufragio, resterebbe sempre un relitto
cui aggrapparsi per ricominciare, una tavola giunta da chissà dove
come le tavole dismesse e graffiate su cui recentemente Piali sta
dipingendo alcune delle sue opere più essenziali e convincenti
(“Arciere”, “Le muse”, “Realtà parallele”, “La piega”), in cui il
carico esistenziale, le irregolarità e i graffi del supporto si
fanno tutt’uno con la sua pittura e con i suoi segni incisi in una
sorta di primordialità contemporanea che lontanamente evoca perfino
i graffiti dei primi uomini nelle caverne. Così il cerchio si chiude
e Piali potrebbe identificarsi nel grande Octavio Paz dicendo con le
sue parole: “Un giorno ho scoperto che non avanzavo bensì che
ritornavo al punto di partenza: la ricerca della modernità era una
discesa verso le origini. La modernità mi ha condotto al mio inizio,
al mio passato. Essa non sta al di fuori ma dentro di noi. E’ l’oggi
e il più antico passato, è il domani e l’inizio del mondo, ha mille
anni e sta per nascere”. Gabriele Simongini
Stefano Piali, la mano visionaria e le metamorfosi della memoria
La ricerca di Stefano Piali è una sfida alle apparenze. Lo si vede chiaramente dopo aver trascorso qualche ora nel suo studio di Marino, ai Castelli Romani, in ambienti confortevoli per qualsiasi altro artista e invece troppo stretti per la sua esuberanza creativa. All’inizio, ad un primo sguardo, si resta sorpresi ed ammaliati dalla maestria tecnica che promana da ogni opera, pittorica o scultorea che sia, una sapienza che non è mai pura esibizione muscolare ma l’esito lungamente inseguito di un faticoso percorso di affinamento spirituale. Qui e in pochi altri atelier cade sorprendentemente nel vuoto il pur lungimirante e veritiero grido d’allarme sulla perdita di “maestria e bellezza” nell’arte contemporanea lanciato dal grande Ernst H.Gombrich. In un secondo momento, dopo essere stato rapito dal vertiginoso magistero esecutivo di Piali (di cui, ad esempio, dà prova perentoria il magnifico marmo “Omaggio al sommo poeta”), il visitatore è catapultato in uno spettacolare scenario mitico, epico, senza tempo, fatto di battaglie, di scontri, di trasfigurazioni, di voli finiti male, di incendi, resurrezioni, naufragi, di attimi fatali, drammatici, tragici, erotici. Lo sguardo si perde fra corpi statuari che si inabissano in enigmatici coni d’ombra e laceranti perforazioni o lacerazioni che mettono in crisi il concetto stesso di bellezza assoluta. Ma, ad un’attenta considerazione, passano in secondo piano le strategie narrative, i pur stupefacenti effetti teatrali e tagli compositivi, le audacissime anamorfosi anatomiche e si scorge il respiro perennemente attivo della memoria e delle “onde mnemiche” tanto care a Warburg, dal passato al presente e viceversa. E’,questa, una scelta controcorrente in un mondo, come quello odierno, drammaticamente pervaso dall’oblio, dalla dimenticanza, dalla cancellazione dei valori e della qualità. In molti quadri e sculture di Piali gli echi della pittura gestuale, dei tagli di Fontana e dei cretti di Burri (si veda l’ambizioso bassorilievo de “Il folle volo”, ad esempio) e forse perfino quelli della body art, dialogano imprevedibilmente, in nuove forme marchiate dalle stimmate della necessità interiore, con la memoria dei tormentati “Prigioni” di Michelangelo, delle contorsioni manieriste, degli infiniti spazi barocchi, del drammatico realismo di Caravaggio, dell’energico dinamismo berniniano, della titanica inquietudine plastica di Rodin, dell’aspirazione al sublime di Blake. Prende così corpo un’alternanza dialettica di continuità e di rottura con il passato più lontano o recente messa perpetuamente in atto dall’artista. Piali ama allo stesso modo pittura e scultura concependole come arti complementari che si rafforzano ed ispirano reciprocamente. E sa ascoltare le “onde mnemiche” ma non se ne fa travolgere, anzi le trasforma in correlativo figurale ed espressione formalizzata dell’energia psichica in divenire. Ecco allora affiorare la linfa interna della sua ricerca, l’idea di metamorfosi totalizzante, interiore ma anche formale e perfino storico-artistica in quella liberissima coesistenza delle differenze che anima il suo percorso. Così le figure di Piali sembrano possedute internamente dall’inesausta agitazione della fiamma e del vento come forze elementari che rappresentano la negazione dell’immobilità cristallizzata. E non è certo casuale il fatto che Piali sia stato allievo all’Accademia di Belle Arti di Roma di Pericle Fazzini, il sublime scultore “dell’impeto del vento”, come lo ha definito l’indimenticabile Ungaretti. Senza dubbio, infatti, il nostro artista potrebbe ben sottoscrivere quanto affermato proprio da Fazzini: “La vera scultura deve arrivare a creare una forma assoluta, mistica, lontana dalla esistenza “fisica” del modello, una forma che non ha bisogno di “respirare” l’aria”. Per diversi anni, dopo gli studi accademici, Piali ha provato quel che hanno provato tutti gli artisti dotati di profonda sensibilità storica, come ha inimitabilmente scritto Aby Warburg nell’Introduzione al suo incompiuto “Atlante della memoria”: “L’obbligo di confrontarsi col mondo formale di valori espressivi predeterminati - vengano questi dal passato o dal presente - segna la crisi decisiva per ogni artista che voglia affermare la propria individualità”. Così, Piali ha saggiato nel corso degli anni un personale inventario linguistico che ha attraversato un iperrealismo analitico e quasi raggelato ma sorprendente per diverse intuizioni immaginative (ne offre un pregevole esempio “Anatomia”, del 1983), quindi una fase più liberamente gestuale, al limite dell’astrazione che lo ha poi portato a far esplodere le forme (con opere assai felici come “Il folle volo”, “Metamorfosi cosmica” e “Muro di Berlino”, baluginanti e visionarie), fino all’intensa fase attuale di ricomposizione degli opposti pur sempre in tensione. Del resto, per Piali la realtà contemporanea e l’interiorità più profonda hanno raggiunto una tale metamorfica complessità da rendere insufficiente un solo codice interpretativo per dare forma a tutto quel che succede nel mondo e nell’uomo di oggi. La stessa tensione fra gli opposti che dà linfa alla ricerca dell’artista si realizza prima di tutto nell’inquieta dialettica della sua tecnica pittorica, anzi, direi, nei modi sempre diversi e variabili di stendere il colore, dalla salda costruzione plastica e luministica alle rarefazioni più leggere e ariose e ai più vorticosi impeti gestuali. A tal proposito Piali potrebbe ben condividere, mutatis mutandis, quanto ha scritto da par suo Massimo Bontempelli nel lontano 1935, con profetica lucidità: “Se butto via il corpo non trovo più nemmeno l’anima. L’arte è tutta fatta di queste strette unioni di contrari. L’arte è il contingente che ha valore di assoluto, il concreto che ha valore di astratto, la realtà che ha valore di fantasia. Nel combattimento tra umanità e astrazione, tra materia e spirito, si tocca un punto in cui d’improvviso ci si avvede che sono la stessa cosa. Quel punto è l’arte”. E così l’idea della metamorfosi e del mutamento interiore concepiti come itinerari di conoscenza percorre tutti i periodi di Piali, li feconda assumendo aspetti diversi ma sempre vitalmente creativi perché in continua tensione ed anelito di ricerca. Il nostro pittore e scultore aspira ancora ad un ideale di grande narrazione, ormai esclusa dal sistema dell’arte contemporanea, ma questo obiettivo si configura come una sfida verso l’ignoto e al di là delle apparenze che si rivela aperta a tutte le possibilità e profondamente pluralista. E così la sua fede incrollabile nella sapienza tecnica non è mai puro e superficiale sfoggio virtuosistico ma profonda consapevolezza del fatto che la mano ed il cervello si arricchiscono reciprocamente e in modi inimitabili soprattutto attraverso il dialogo continuo innescato dalla pratica artistica “tradizionale”. Lo ha chiarito bene il Pictor Classicus per eccellenza del XX secolo, Giorgio de Chirico: “La mano dell’uomo possiede una agilità che non è stata concessa dalla Natura agli altri esseri viventi, quindi il cervello dell’uomo concepisce un’idea che la mano traduce ed esprime creando un oggetto concreto e tangibile. L’oggetto realizzato stimola poi il cervello al pensiero e al desiderio della perfezione”. Ecco, dalla pittura di Piali promana pure un’ansia di perfezione che inevitabilmente va a scontrarsi col superficiale e tirannico pressappochismo del mondo di oggi, votato al puro e semplice intrattenimento spettacolare. Nel quotidiano percorso creativo di Piali ogni momento del processo esecutivo e tecnico stimola la creatività perché per il nostro artista l’atto del fare significa anche immaginare. In qualche modo egli comincia a “vedere” solo quando prende contatto con la materia e lavora con le mani. In tal senso è inevitabile pensare anche ad un fondamentale testo di Henri Focillon del 1943, “Elogio della mano”, in cui il geniale storico dell’arte francese scrive: “La mano tocca l’universo, lo sente, lo domina, lo trasforma. A lei si debbono straordinarie avventure della materia. Non le basta afferrare ciò che è: deve operare a ciò che non è, deve aggiungere un nuovo regno ai regni della natura”. Non a caso Piali sente fortemente la vocazione a dare immagine a realtà parallele, a mondi interiori indipendenti dal visibile. Così il nostro artista ha scelto coraggiosamente di mettere costantemente alla prova una sicura capacità demiurgica di identificazione con le materie usate e con una naturale vocazione alla meditazione e alla contemplazione. E non ha paura di sentirsi talvolta definire “inattuale” perché oggi, per sfuggire alle spire soffocanti del tentacolare sistema dell’arte con le sue mode effimere e con l’ossessione del nuovo ad ogni costo, è necessario proprio un sincero e costante “elogio dell’inattualità”. Le sue sono opere veramente capaci di tramutarsi in “significato incarnato”, per usare una felice definizione di Arthur C. Danto. Estremamente contemporanea nello spirito è poi la virtualità spaziale che innerva con tutta evidenza molte opere pittoriche di Piali tramite una multidimensionalità policentrica che rende metamorfico e mutante lo spazio stesso, concepito non più come un semplice contenitore – secondo gli stilemi classici – ma come un campo di psicomachie interiori, animato da una perenne agitazione, da un furor quasi dionisiaco e da un inquietante stato d’allarme: lo si vede bene in opere come “Piani nello spazio” (2005-2006), “Dal ciclo delle Muse” (2008) o nel dittico “Materia e spirito” (2008) e nel trittico “Porta di luce” (2007), solo per citarne alcune. Immaginando la coesistenza di molteplici realtà parallele che si intrecciano, Piali sembra intuitivamente mettersi sulla stessa lunghezza d’onda delle più recenti ipotesi scientifiche secondo cui l’universo a noi noto non sarebbe l’unico, poiché esisterebbe il “Multiverso”, un insieme di universi coesistenti e paralleli ma non semplicemente affiancati l’uno all’altro: essi infatti si compenetrerebbero senza interagire in alcun modo tra loro. In ogni caso, ad un’attenta lettura, una metamorfica dislocazione spaziale dalle infinite potenzialità anima pure le sue sculture più riuscite: quattro marmi folgoranti come il saettante “Lampo erotico” (1996), l’inquietante “Tensione” (1996), quasi sul punto di esplodere nello spazio con la sua impressionante concentrazione interiore, “Liberazione” (2001), magnifico nudo femminile che si trasforma in spirale ascendente, carica d’energia e il tempestoso “Un abbraccio per la pace” (esposto in permanenza nell’Aula consiliare del Comune di Ciampino); bronzi come “Sovrano” (1994), ribollente per una sorta di implacabile fiamma interiore, la drammatica “Energia vitale” (2009), “Grande Re” e “Regina” (2006-2007), animati dalla concretizzazione plastica dei loro diversi stati d’animo; terrecotte come “La fuga” (2006-2007), con le sue mirabolanti espansioni spaziali o “Conflitto” (2008), in cui la forma stessa si fa tormento insopprimibile. Nel continuo “gioco” di rottura e di continuità con il passato e con il presente, messo in atto da Piali e a cui si è accennato, la metamorfica dislocazione spaziale delle forme non richiama solo le più aggiornate teorie scientifiche ma nell’elemento temporale della percezione sembra idealmente tener conto di una delle definizioni più illuminanti che riguardano la natura e l’essenza della ricerca plastica: quella data nel “Laocoonte” (1766) da Gotthold Ephraim Lessing, secondo cui la scultura è un’arte legata al dispiegamento dei corpi nello spazio. Pur sottolineando spesso che questa caratteristica spaziale è tipica delle arti visive e comporta una loro sostanziale staticità, Lessing precisa anche, a proposito della scultura, che “Tutti i corpi non esistono solo nello spazio, ma anche nel tempo. Essi perdurano, e possono apparire in ogni momento della loro durata con combinazioni differenti. Ognuna di queste apparizioni e combinazioni momentanee è il frutto di una precedente, e può essere la causa di una successiva, e perciò, per così dire, il centro di un’azione”. Ecco, Piali cerca proprio di attuare una strategia di dislocazione dinamica (in senso temporale e percettivo) delle sue forme plastiche nello spazio, articolandole con inquieta tensione. E rafforza il loro carattere metamorfico con una strategia spiazzante, simile per certi versi a quella adottata in pittura e che passa rapidamente dalla resa virtuosistica del più minuzioso dettaglio anatomico all’affioramento materico appena sbozzato e soprattutto ad una potente strutturazione astratta, particolarmente evidente nel retro delle sculture, fatta di tagli perentori oltre che di potenti triangolazioni compositive che le innervano di concentrato dinamismo potenziale: se ne hanno esempi mirabili nei già citati marmi “Lampo erotico”, “Tensione”, “Liberazione” e nei proteiformi “Narciso” ed “Apparizione”, opera che sembra planata fra noi direttamente da un sogno. Così uno dei punti di forza della ricerca di Piali sta nell’assoluta identificazione da lui raggiunta fra processo formale e intuizione immaginativa, come dimostra il motivo dominante della metamorfosi che è al tempo stesso fisica, interiore, stilistica e tecnica. Concedendosi giustamente la più assoluta libertà d’azione creativa, Piali non cade mai nell’arbitrio della trovata fine a se stessa tipica di tanta pseudo-arte contemporanea. Crede infatti nella coscienza storica della forma e nelle infinite possibilità delle sue declinazioni tecniche ed immaginative, capaci di assicurare un’indipendenza assai maggiore di quella raggiunta dagli artisti che magari pensano di colmare la mancanza di un propria visione del mondo con gli effetti speciali degli strumenti iper-tecnologici. Così, nel suo sforzo titanico di dare concreta immagine plastica e pittorica alla drammatica complessità vitale del mondo, Piali potrebbe far sue queste riflessioni di un grandissimo artista come Max Beckmann: “Quanto più diventa forte ed intensa la mia volontà di fermare le indicibili cose della vita, quanto più pesante e profondo brucia in me lo sgomento per la nostra esistenza, tanto più riservata si fa la mia bocca, tanto più fredda si fa la mia volontà di afferrare questo mostro di vitalità orrendamente guizzante e di chiuderlo, abbatterlo, strangolarlo in linee e superfici nette e cristalline”. E’ questo, fatte le debite proporzioni, l’obiettivo inseguito in modi personali dallo stesso Piali, il cui itinerario creativo dagli inizi ad oggi rivela una impressionante coerenza nel perseguire come anelito costante una sorta di percorso iniziatico verso la liberazione interiore, continuamente minacciata da dissidi, conflitti, violenze, fallimenti (i tanti voli franati che popolano i suoi dipinti), speranze deluse. I suoi corpi nudi e spesso dolenti sembrano metaforicamente portare su di sé il senso di colpa della cacciata dal Paradiso terrestre o forse sono i sopravvissuti di un’immane tragedia che pur non ne ha deturpato la bellezza. Non di rado dalle opere del Nostro promana quasi l’ansioso timore di un’apocalisse imminente anche in relazione al crollo e allo sconvolgimento delle forme e dei valori umanistici a cui stiamo assistendo per lo più da osservatori passivi in un’epoca, come quella attuale, che sembra identificabile in una sola parola: crisi. “Crisi delle utopie, crisi dei progetti, crisi dei modelli - ha scritto Yves Michaud - perfino crisi della storia divenuta finzione. Dal punto di vista collettivo, il capitalismo e la globalizzazione sono ormai l’ambiente, senza esterno, in cui ci tocca vivere.[…] Il tempo si è per così dire appiattito: non comporta più la dimensione di un fine ultimo che faceva luccicare il futuro. […] Può darsi che il futuro riacquisti senso, non con un colpo di bacchetta magica del pensiero ma rivelandosi davvero fallibile: sotto forma non di vuoto ma di catastrofe, sotto forma di Apocalisse. L’avvenire riacquisterebbe un senso…venendo semplicemente a mancare”. Nonostante tutto, però, l’energia interiore, gli sguardi intensi e profondamente concentrati degli uomini e delle donne di Piali rivelano un desiderio di riscatto positivo ed un’ansia di ricostruzione etica che tengono lontano l’incubo apocalittico. E così, pur nell’ipotesi di un naufragio, resterebbe sempre un relitto cui aggrapparsi per ricominciare, una tavola giunta da chissà dove come le tavole dismesse e graffiate su cui recentemente Piali sta dipingendo alcune delle sue opere più essenziali e convincenti (“Arciere”, “Le muse”, “Realtà parallele”, “La piega”), in cui il carico esistenziale, le irregolarità e i graffi del supporto si fanno tutt’uno con la sua pittura e con i suoi segni incisi in una sorta di primordialità contemporanea che lontanamente evoca perfino i graffiti dei primi uomini nelle caverne. Così il cerchio si chiude e Piali potrebbe identificarsi nel grande Octavio Paz dicendo con le sue parole: “Un giorno ho scoperto che non avanzavo bensì che ritornavo al punto di partenza: la ricerca della modernità era una discesa verso le origini. La modernità mi ha condotto al mio inizio, al mio passato. Essa non sta al di fuori ma dentro di noi. E’ l’oggi e il più antico passato, è il domani e l’inizio del mondo, ha mille anni e sta per nascere”. Gabriele Simongini